Caro Giuseppe,
In questi giorni qualcosa si è acceso che durerà, nella storia della scrittura del nostro paese,
solo lo spazio di tempo della traccia luminosa di una stella cadente. Perché a me sembra che
quanto s’è detto e scritto in questo periodo d’inverno a proposito dell’ASSI sia imposto dalla
nostalgia. E ciò anche in virtù del fatto che tu, all’improvviso e spiazzando tutti, senza
considerarne i chilometri percorsi, invece di lasciarla tranquilla in garage, accudirla ed usarla
per fare qualche breve escursione la domenica, ti sei messo al volante di quella vettura
d’epoca che è l’Associazione degli scrittori, per condurla a grande velocità a sfasciarsi contro
il muro dell’opportunità; e buonanotte. E’ una bella automobile l’ASSI, una Mercedes degli
anni quaranta. Il veicolo, sul quale sono saliti anche personaggi d’indiscussa fama, è sempre
stato guidato da gente attenta e degna. Purtroppo l’augurio della buonanotte ci sta perché tu
non hai mai proposto cosa fare dopo che l’ASSI si sarà sciolta. Leggendo le riflessioni scritte,
si ha l’impressione che persone impegnate ed intellettualmente oneste, come Barchi e Toppi,
credono in una sorte di magia che, basta evocarla con una parola, per disporre del futuro come
lo si desidera. Un avvenire insomma, con scrittori, senza macchia e senza paura, che si
assumono, oltre il compito di scrivere bene, che è già una fatica boia, anche il ruolo di
guardiani dell’etica politica e sociale e di promotori della perfetta efficienza in campo
culturale. I poeti, i romanzieri, i saggisti, la società perbene li vuole tutti con in una mano la
penna, almeno per diciotto ore al giorno se si vuole trattare seriamente l’elenco dei dodici
compiti che tu assegni loro, e nell’altra la frusta per tirar colpi, possibilmente più a destra che
a manca. Ma quale è, e soprattutto quale è stata la missione degli scrittori in questi ultimi
sessant’anni? Un esame serio di questo periodo del passato è utile per concepire qualcosa di
fondato e duraturo per il futuro. Tu sei vecchio Giuseppe, come del resto vecchio lo sono
anch’io, e certe cose possiamo dirle liberamente, senza ipocrisia e senza mitizzare nulla. La
mia analisi di questi sei decenni passati si conclude sempre con una constatazione: malgrado
ciò che appare il ruolo e l’azione degli scrittori e degli intellettuali sono sempre stati
determinati dai politici e dalla politica dominante che ne ha circoscritto i confini. Non siamo
mai stati indipendenti come appare. Gli scrittori, malgrado i miti come Zola e Sartre che oggi
nostalgicamente si ripropongono, se oggettivamente si considerano i sei decenni trascorsi
dopo gli anni cinquanta del secolo scorso, non ne escono tanto bene. Illuminante a questo
proposito è una tesi contenuta nel saggio “Liberal und unabhängig. Gerd Bucerius und seine
Zeit”(C.H.Bec kVerlag,Munchen 2000) che ripercorre la storia del quotidiano tedesco “Die
Zeit” scritto da Ralph Dahrendorf. Dahrendorf sostiene che nel periodo della guerra fredda
s’era stabilito nell’Europa occidentale un generale e tacito accordo che assegnava la cultura
alla sinistra, l’economia alla destra ai fini di tenere saldamente la politica al centro. Questa
constatazione ridimensiona di molto la dimensione del ruolo politico degli scrittori e degli
operatori culturali nell’ultimo mezzo secolo e li priva di quell’aureola del sacrificio e del mito
che li collocava quali isolati propugnatori e difensori della giustizia sociale. Anche in
occidente gli scrittori agivano, analogamente a quanto accadeva nel blocco comunista, perché
era loro graziosamente concesso di operare per il riscatto sociale, dai politici che a quel
tempo facevano ancora politica. E paradossalmente fu un momento mortificante, per te e per
me, perché non avevamo mai manifestato particolare entusiasmo per il marxismo in un’epoca
in cui era riconosciuto buon scrittore solo chi era di sinistra. L’ideologia di sinistra, quella
vera ed incisiva, nel regime capitalista, così come la libertà d’espressione, sono servite e
servono ancora oggi al sistema quale alibi per dimostrare l’autenticità della democrazia. E da
noi, nel piccolo Ticino, accadde qualcosa di sorprendente. Ci fu fra gli intellettuali un buon
numero di agenti che passarono disinvoltamente dal dogma cattolico ai dogmi marxisti, senza
attraversare l’arido e difficile deserto del liberalismo radicale, quello che comprende la libertà
di pensiero, pone più domande che risposte e più dubbi che certezze. Grazie a questo clima e
al patrimonio culturale accumulato proprio dal radicalismo liberale sorsero il PSA e la locale
sezione del Gruppo di Olten che indubbiamente contribuirono non poco al progresso sociale e
culturale del paese. Tuttavia è stata una sinistra, quella espressa dal movimento politico e
culturale citati, sempre nutrita dal potere politico stabilito in quel tempo e seduta
comodamente su uno zoccolo di granito duro e stabile lasciato in eredità dall’alleanza politica
fra socialisti e radicali. Il bel libro di Pompeo Macaluso “Storia del Partito Liberale Radicale
Democratico Ticinese” (Dadò 2004), che descrive le basi culturali e racconta la genesi di
questa alleanza (e l’autore se ne dice innamorato), da noi è stato, senza sorpresa per me, quasi
ignorato appunto perché il problema dell’importanza culturale del liberalismo radicale
Macaluso lo pone, così come e di conseguenza ha posto quello della storia e dell’azione
effimere che da noi ha avuto il socialismo dogmatico. Beipassare il liberalismo radicale o il
socialismo liberale, che sono quasi la stessa cosa, è diventato per molti operatori culturali,
scrittori ed intellettuali, abituati ad un disinvolto balletto d’andata e ritorno fra cattolicesimo e
marxismo, un vizio endemico. Così oggi, per certuni, è difficile fare i conti con il passato e
prospettare qualcosa di concreto per il futuro. La politica non è più in grado di assegnare ruoli
e garantire spazi alla cultura, né ha la volontà di farlo. Essa si è assoggettata
incondizionatamente all’economia per svolgere un ruolo subalterno, e sono una minoranza
quelli che si vergognano e si indignano per la condizione umiliante di servaggio in cui si
trova. Ciò rende ancora più difficile prospettare un futuro per l’associazionismo degli scrittori
e per l’agire degli intellettuali. Scrittori ed intellettuali che hanno fallito perché, se sta
l’assunto di Dahrendorf, non sono stati in grado e capaci di dominare loro la politica , invece
di capitolare anch’essi di fronte all’economia. Allora, Giuseppe, che fare? Io, una proposta,
seppur modesta, ce l’avrei. Premetto che la provocazione non s’addice agli anziani e
dovrebbe essere riservata ai giovani, spesso da noi sopraffatti. I vecchi, come la saggezza
suggerisce, dovrebbero far riflettere, con calma. Sono sempre più convinto che chi scrive, nel
processo politico e sociale, non ha e non deve assumere il compito di pubblico ministero, ne
quello della giuria. Lo scrittore deve essere solo il depositario della memoria di ciò che
avviene attorno a lui e un umile testimone. E per testimoniare, con coscienza ed onestà,
spesso si soffre e ci vuole non poco coraggio.
Un cordiale saluto da
Arnaldo Alberti