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Questo carcere minorile non s'ha da fare

Di Arnaldo Alberti


Il dissesto morale di oggi, conseguente alla pandemia, è in parte confermato da un articolo apparso su questo quotidiano lo scorso 29 maggio. Trattava il tema del carcere minorile e il testo definiva perentoriamente, già nel titolo, che “L’istituto chiuso è necessario”. Ciò in risposta a dichiarazioni della Magistratura dei minorenni che, invece d’entrare nel dibattito con una seria analisi sulla sostanza del grave problema della devianza minorile, burocraticamente appoggia su freddi numeri e opache statistiche la richiesta d’edificare una prigione. Rilevante è anche il fatto che lo Stato, in condizioni finanziarie oggi precarie, vuole dare a un’istituzione privata, prima 150.000 franchi per elaborare il concetto pedagogico, poi oltre sei milioni per la costruzione dell’edificio. Una cucina tuttofare quella dell’appaltante che prende parte allegramente al gioco del clientelismo politico e che prelude alla privatizzazione del sistema carcerario ticinese. Che tanto il carcere, come la polizia e la magistratura non è in grado di risolvere il problema della violenza lo costatiamo dai giornali e dallo schermo televisivo che ci trasmette ossessivamente atti e immagini d’inaudita ferocia. Ora, dopo una pausa di alcuni mesi, il Gran Consiglio riprende un fascicolo che riguarda davvicino il destino di nostri figli e di nostre figlie adolescenti. Perché il problema, politico e insieme etico, deve essere posto in tutta la sua semplicità: se creo e edifico un istituto, dovrebbe essere in grado e avere le qualità essenziali per ospitare anche mio figlio o mia figlia cui io voglio bene. Invece, con una superficialità e una supponenza poco comune, i deputati e le deputate del Gran Consiglio e delle commissioni eludono una realtà che non esclude i loro discendenti o parenti stretti dal caso di dover occupare un giorno una cella, o semplicemente un letto, in una struttura proposta dal messaggio che il legislativo sta esaminando. Una cella in cui è previsto l’isolamento di giovani già estromessi dall’ambito sociale proprio in conseguenza della solitudine disperante in cui, nel momento del bisogno, sono stati abbandonati. Gli atti illeciti commessi dagli adolescenti e dai giovani d’ambo i sessi, più che risposte a situazioni genitoriali degradate, sono interrogativi posti dai minori a degli adulti incapaci d’amare. Un letto in una cella dove è permesso il contenimento con le cinghie per legare il giovane o la giovane quando oppongono resistenza al volere di chi vuole sottometterli non si augura nemmeno al peggiore nemico. Il periodo adolescenziale è proprio quello del continuo e reiterato tentativo del minore che prova e provoca per capire i limiti in cui può muoversi e può agire in una condizione sociale spesso marcata dal cinismo e da gente priva di un senso comunitario che va oltre il possesso e la ricchezza materiali. Tanto l’isolamento quanto la contenzione, oltre che essere vietate da convenzioni dell’ONU ratificate dalla Svizzera, sono risposte a comportamenti adolescenziali che, come stigmate, segnano per sempre la vita di un essere umano in divenire. Si è compreso recentemente per gli internamenti amministrativi e ora si ricade nello stesso errore. La necessità del carcere minorile è emersa col caso dell’omicidio di Tamagni e con il desiderio, inconscio o conscio, della vendetta verso un figlio d’immigrati: un omicida di cui nessuno, ripeto nessuno s’è mai interessato seriamente d’analizzare, col buon senso comune, l’origine di tanta brutalità. Una ferocia diffusa che nessun carcere minorile o riformatorio, indipendentemente dal nome che gli si vuol dare, riuscirà mai a sradicare fintanto che esistono disuguaglianze sociali circoscritte da predatori e da prede il cui carattere e la minaccia è inversamente proporzionale alla costante presenza nell’essere di una cultura etica e umanistica, profondamente radicata e indipendente dal fatto d’essere religiosa o laica. La superficialità e la leggerezza, prossime all’ipocrisia, con cui oggi si trattano problemi di fondamentale importanza per la determinazione del destino di ragazzi e ragazze, è resa più che evidente dal nome che si può o non si deve dare all’infelice struttura che si vuole edificare. Per i benpensanti è assolutamente da evitare di qualificare l’istituto come un carcere. Tuttavia un onorevole di nome e, di fatto, in Gran Consiglio ha precisato che
se vi si rinchiudono giovani con sentenze penali o provvedimenti amministrativi, è una prigione e per un minimo di onestà intellettuale va detto e riconosciuto. E come non si risolve il problema del razzismo cambiando il nome ai moretti di cioccolato, così mai si risolverà o si attenuerà la violenza giovanile attribuendo un nome gradevole a un istituto che nasce, abortito da culture populiste e premesse emozionali.

 

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